L’adolescenza, spesso intesa come fase dello sviluppo nel corso della quale ci si prepara ad essere adulti, è da considerarsi non solo un tempo della vita, ma soprattutto un agente organizzatore decisivo del funzionamento mentale. L’adolescente infatti si trova a dover riorganizzare, in un percorso di sperimentazione e integrazione, lo sviluppo psicologico precedente, che viene visto in un contesto nuovo di maturità sessuale. A ben vedere pensare e prepararsi all’adultità è proprio ciò che l’adolescente teme, così come interrogare la sua infanzia.
Dopo Sigmund Freud col caso di Dora (1901), per molto tempo il tema dell’adolescenza è stato trascurato. Non a caso, sulla falsa riga del concetto di controtransfert, l’adolescenza ha indossato le vesti della Cenerentola della psicoanalisi. L’interrogativo era se considerare l’adolescenza solo come una ricapitolazione o un prolungamento di ciò che si è giocato nei primi cinque anni di vita?»(Cahn 2010). I primi psicoanalisti, d’altra parte non si interessarono affatto agli adolescenti, salvo alcuni non medici, sulla base di un approccio socio pedagogico. Tra loro Anna Freud (1972) riprendeva l’idea del padre sulla pubertà come ricapitolazione del periodo pregenitale, evidenziandolo come periodo in cui riesplodono i conflitti a causa dell’aumento delle pulsioni, contro le quali l’adolescente si protegge utilizzando vari meccanismi di difesa. Per dirla anche con Marie Bonaparte (1952) «La pubertà (…) rivoluzione dell’organismo infantile (rende) l’adolescente preda dell’istinto». Anna Freud concludeva, a partire da un insieme di argomenti effettivamente pertinenti, che l’adolescenza rappresenta una controindicazione per la psicoanalisi. Pirre Male (1982) sarà uno dei primi ad accumulare una considerevole esperienza nella clinica, tale da permettergli di descrivere l’approccio specifico in funzione delle diverse categorie psicopatologiche. Bisogna però attendere Peter Blos (1962) per poter vedere eretto un pensiero metapsicologico sull’adolescenza; ma comunque anche lui concludeva che un vero e proprio processo psicoanalitico non poteva essere osservato se non dopo i 19 anni. Mélanie Klein (1945), al contrario non trovava nulla in contrario alla cura dei più giovani, «praticando imperturbabile il metodo Mélanie Klein indipendentemente dall’età del paziente». I lavori di Edith Jacobson ( 1964) sono troppo spesso ignorati e Winnicott (1968) è convinto che la sola risposta possibile dell’ambiente è di lasciare al tempo il tempo di fare il suo lavoro, e intanto sopravvivere aspettando la bonaccia.
È facile capire in questo contesto quanto hanno dovuto faticare Moses e Egle Laufer, anch’essi allievi di un’Anna Freud scettica ma benevola, per crearsi una breccia col pensiero, allora innovativo, secondo il quale è la cura psicoanalitica rigorosa lo strumento più idoneo al trattamento degli adolescenti, addirittura, al contrario di quanto si osserva con gli adulti, la più indicata nei disturbi gravi. Tale teorizzazione ha ricevuto in Francia un’accoglienza eccezionalmente favorevole e anche se oggi, naturalmente, la situazione non è più la stessa essa ha permesso successivamente agli autori di cui si fa maggior riferimento di sviluppare i loro pensieri. Ci riferiamo in breve (ma ci sarebbe da dire veramente tanto!) ai francesi: Ph. Jeammet e l’attenzione per la relazione tra mondo interno ed esterno, R. Cahn e al processo di differenziazione (soggettualizzazione/soggettivazione), a Ph. Gutton e le innovazioni sul Genio adolescente; in Italia ad Arnaldo Novelletto e al suo instancabile e produttivo dedicarsi alla specificità del funzionamento della Mente adolescente di cui ricordiamo solo alcuni tra i concetti più creativi: la diagnosi lunga, la fantasia di recupero maturativo, il valore della segretezza, la specifica condizione del giovane adulto.
Croce e delizia dell’ancora bambino sarà quindi l’irruzione della pubertà e il lavoro mentale che dovrà necessariamente dedicare ad essa per rilanciarsi da uno sconvolgimento psichico e corporeo; tale passaggio delicato paradossalmente gli offre una nuova possibilità per poi poter sostenere il creativo interrogare l’infanzia e sviluppare le sue originalità condivisibili. In altre parole, a partire dal sostenibile lavoro del pubertario, creare la sua opera d’arte.
Il lavoro psicoterapeutico si inserisce proprio su questi piani tanto cruciali, sciogliendo i conflitti che impediscono il crescere, trasformando l’agire non pensato dell’adolescente in capacità di sognare e pensare, permettendogli di guardare al futuro, salvaguardando però le basi che la sua storia gli ha fornito. Una fase di importanza cruciale dato che si ristruttura e si riorganizza l’identità.